If I woke up one day / Alessio de Girolamo

IF I WOKE UP ONE DAY

 

Elaborazioni spaziali da un altro mondo.

Cosa succederebbe se il mondo un giorno si svegliasse in un luogo diverso da quello abituale?

 

If I woke up one day è uno spazio di fantasia, all’interno del programma Living Room, nel quale il tempo, lo spazio, le relazioni umane, la natura hanno mutato forma e il virtuale è diventato reale.

 

Un artista alla settimana immagina cosa accade oltre la parete, sperimentando liberamente lo spazio e come questo si rapporta al limite in un universo distopico.

LIVING ROOM

If I woke up one day / Alessio de Girolamo

Alessio de Girolamo

Atlantis, Hscape 

video monocanale, 55 minuti 

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Progetto Atlantis

 

Atlantis è l’emersione di un nuovo paesaggio sonoro che dialoga con l’architettura e i suoi abitanti. E’ un’Atlantide svelata dal ritiro del mare di “decibel” che la sommergeva.
Al suo interno ci sorprendono echi, riverberi e distorsioni di archi, fiati, cori. Lontane paracusie rimbalzano sui muri, si gonfiano nel vuoto di grandi stanze desolate o riecheggiano in campi lunghissimi, dove non c’è uomo ad assorbirne la potenza né colorate frequenze a ostacolarle.
In tale paesaggio le regole, i rapporti e i significati risultano spostati quasi volessero svelare la fragilità di un’illusione che, incrinata, restituisce il profilo del vuoto al quale dà forma.

 

Il lavoro sonoro si basa su campionamenti di suoni ambientali realizzati a Milano durante la quarantena per covid-19. Il principio delle composizioni è fondato sulla percezione di un nuovo paesaggio sonoro dove le frequenze si propagano senza ostacoli e assorbimenti evocando talvolta cori o strumenti musicali non esistenti.

 

La relazione con l’architettura deputata all’aggregazione di persone è centrale in quanto la mancanza di assorbimento umano crea fenomeni suggestivi come nel caso dei supermercati dove i frigoriferi ricordano cori e organi a canne (modulo F3C-CH2-F, durata 18 minuti). Anche le registrazioni del paesaggio sonoro esterno allo studio hanno dato vita a una traccia in cui, data l’assenza del traffico di tangenziale retrostante, emerge l’illusione di archi in lontananza (modulo Hscape, durata 51 minuti).

 

 

Il lavoro visivo è una metafora del dialogo sonoro tra le frequenze, l’architettura e la mobilità (vd concept iniziale); riprendendo alcuni tra i simboli che ricorrono nell’immaginario e nel quotidiano di questa quarantena, essi vengono prima stilizzati e poi inseriti con un software 3D su uno spartito musicale per ottenere dal medesimo dei bugs (errori) nella fase di rimozione.

 

 

Atlantis, F3C-CH2-F

 video monocanale, 18 minuti

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Conversation pieces

Alessio de Girolamo & Francesco Oliveto

La conversazione tra Alessio De Girolamo e Francesco Oliveto si svolge nella forma di uno scambio epistolare moderno. L’email, da elemento assorbente del tempo umano, diventa così mezzo di dialogo e anzi, uno spazio attraverso cui l’artista, da una parte e il compositore, dall’altra, del tempo si riappropriano. Il sommerso, il non visibile, trova una sua fisicità nella musica, che a sua volta trova in questa corrispondenza la sua parola. Il progetto Atlantis viene così scandagliato, sezionato, raccontato, forse in una sola parola, riemerso.

If I woke up one day / Alessio de Girolamo

estratti da email

AdG: Caro Francesco qui inizia la nostra conversazione su Atlantis per il progetto digitale di Manifattura Tabacchi.
In c/c e ben lieto del loro intervento saluto Mara Pizzinini e Caterina Salimbeni che hanno sostenuto questo piacevole scambio testuale con il maestro Oliveto, un incontro fondamentale per l’inizio della mia ricerca sul suono.
Come ti ho anticipato al telefono caro Francesco, il progetto si chiama Atlantis, il motivo di tale titolo scaturisce dalla riflessione sui cambiamenti del paesaggio sonoro che repentinamente si sono verificati.
Lo svuotamento di frequenze, cosiddette ‘colorate’, prodotte dalla mobilità e dalla produttività, nonché le pressioni sonore e i volumi improvvisamente calati di intensità, e ancora gli assorbimenti dovuti all’aggregazione di masse umane ormai inesistenti, sono come un mare che si è andato di colpo a ritirare. Facendo emergere qualcosa che ricorda una antica città all’interno della quale echeggiano paracusie.

FO: Caro Alessio,
sono molto felice di iniziare questa conversazione epistolare, seppur virtuale, circa il tuo lavoro Atlantis, e sono lieto di condividerla con gli amici della Manifattura Tabacchi di Firenze che ringrazio per avermi coinvolto.
Perdona il titolo di ogni mio intervento, lo faccio non tanto per dargli importanza, ma piuttosto come promemoria per non divagare…

Il sommerso e l’emerso

 

Iniziamo dal titolo, che trovo quanto mai appropriato: Atlantis.
L’emersione atlantidea della tua opera necessita, ovviamente, di una precedente immersione dentro una massa che si è andata a costituire con l’avvicendarsi delle epoche. Tra queste, la rivoluzione industriale ha certamente contribuito ad accelerare la stratificazione di decibel e hertz a cui il nostro udito si è ormai abituato. Non solo, anche tutta la letteratura musicale, colta o meno che sia, ha fortemente influenzato la costruzione di un orecchio collettivo e condiviso. A tale proposito penso che il tuo lavoro contenga una certa carica “provocatoria”, come ogni opera d’arte che si rispetti. Mi spiego meglio. Chi, come me, ha ricevuto una formazione musicale accademica contribuisce, forse inconsapevolmente, all’incremento di quella massa acustica a cui prima accennavo. Il compositore, in senso tradizionale, nel tentativo di percorrere strade non battute, adotta sempre (suo malgrado) sistemi additivi, ovvero strutture musicali più o meno personalizzate che si sommano ad altre già storicizzate. La tua poetica, caro Alessio, è invece sottrattiva, si concentra cioè su “ciò che resta” e, soprattutto, dà voce a “ciò che c’era” ma che non potevamo più sentire, come una sorta di archeologia sonora. In questo senso la tua opera è provocatoria: ammonisce e ricorda che l’opera d’arte musicale deve, prima di ogni altra cosa, rendere udibili tutti quei segni che sfuggono alla maggior parte di noi.

 

In tutto ciò Atlantis mi ricorda inevitabilmente la celebre pagina di Marcel Proust (perdona l’intellettualismo), contenuta nella sua Recherche, in cui descrive il momento del ricordo come l’emersione improvvisa di un intero continente che era stato sommerso, fino a quel momento, dalla memoria. Se così è, allora, quel ‘mare di decibel’, che l’attuale emergenza ha fatto ritirare, svolgeva forse anche una funzione amniotica. Serviva cioè ad alimentare e preservare tutte quelle conchiglie musicali che con cura e attenzione, caro Alessio, stai raccogliendo sulle battigie di questo nostro tempo così sospeso.
Mi riservo di formulare considerazioni di natura più tecnica circa il tuo lavoro nelle prossime mail per evitare di annoiarti oltremodo.

 

 

AdG: Certamente caro Francesco, mi sembra ottima l’idea dei titoli per fare ordine sulla conversazione e adotterò anch’io questa modalità.

 

I messaggeri di Atlantis

 

credo che il tuo sottolineare il confronto con ciò’ che ha precedentemente sommerso il paesaggio e la sua  responsabilità circa l’oblio di certe preziosità, sia centrale proprio nel parlare della “scoperta” sonora di questa mia Atlantis.  Si usa spesso l’espressione “coperta sonora”.  In questo caso quella caratteristica sottrattiva, che acutamente hai messo a fuoco, mi fa venir voglia di usare l’espressione “scoperta sonora”. Il sentimento di sorpresa e meraviglia che una scoperta può dare,  arriva, in questo caso, dal confronto del suono con architetture che hanno un “senso nuovo” o che imprigionano un’”impotenza” di senso, e non  con l’esperienza di nuove architetture di una nuova città. Ciò che mi preme dire, cioè, è che Atlantis è raccontata dai suoni come in un preludio. E che l’ architettura, che assume se pur forse provvisoriamente un sapore archeologico, è la sua cassa armonica. Possiamo sicuramente esprimere un legittimo “orrore” verso la frenetica produttività e il senso dell'”iper” con cui siamo cresciuti e in cui abbiamo dovuto trovare un ruolo, nostro malgrado, ma ora, in questa fase, tutta la tecnica e la tecnologia accusate di generare una dimenticanza ontologica, sono diffusori di un messaggio. Sono il mezzo di risonanza. 

 

Voglio pensare che i suoni siano messaggeri di Atlantis. E che ci vengano ad annunciare qualcosa per cui è richiesta la nostra immaginazione al fine di generare coscienza. 

 

FO: Caro Alessio, sono molte le questioni che Atlantis solleva e che fai emergere. Proverò a procedere con ordine, per quanto mi è possibile.

 

Preludi e postludi

 

L’accenno al “sommergente” mi sembrava un buon modo per iniziare questo cammino e sono felice che tu l’abbia sottolineato. La tua “scoperta sonora” ha a che fare con ciò che resta, come ho già detto, e penso anch’io che questo instauri un nuovo dialogo con il contesto che lo circonda. I suoni-messaggeri di Atlantis che tu impieghi tessono, infatti, un contrappunto tra contenitore e contenuto che, tutto sommato, non è nuovo alla storia della musica. E proprio questo nuovo contrappunto colloca la tua ricerca, a mio modo di vedere, anche sul solco di una tradizione. Tale ambivalenza, la “provocazione” a cogliere i segni di una nuova scoperta e il puntctum contra punctum tra il risuonatore e il risonante, mi suscita alcune riflessioni. Il primo pensiero porta a Monteverdi che nel 1610 dette alle stampe il celebre Vespro della Beata Vergine, opera monumentale e concepita per essere eseguita specificatamente all’interno della Basilica di San Marco a Venezia, un’opera site specific, come si direbbe oggi. Monteverdi intuì non soltanto che l’intero volume della Basilica marciana poteva essere il luogo in cui la sua opera sarebbe stata eseguita, ma che quell architettura risonante (“cassa armonica”, come tu giustamente scrivi) sarebbe stata parte attiva della composizione e avrebbe, conseguentemente, plasmato il portato estetico del suo Vespro. Non a caso il compositore cremonese dislocò musicisti e cantori in varie zone della Basilica ed essi si sarebbero spostati a seconda del brano da eseguire. Costruì a tutti gli effetti un vero e proprio macro-strumento, esattamente come ogni compositore che si rispetti è tenuto a fare.

 

Così la tua Atlantis, caro Alessio, ci ricorda anche che chiunque abbia a che fare con l’assemblaggio dei suoni, sia esso compositore o artista sonoro (le definizioni lasciano il tempo che trovano quando si parla di musica), deve essere anche “liutaio”. Non è un caso, credo, che la forma del “preludio”, a cui tu accenni, sia nata proprio nella stessa epoca di Monteverdi. Il pre-ludus, nelle sue origini è essenzialmente una sorta di test improvvisato per verificare il corretto funzionamento dello strumento in tutte le sue parti. Questo check  aveva una struttura libera e spesso serviva anche ad accrescere le aspettative dell’ascoltatore per il brano musicale scritto, e quindi precedentemente concepito, che avrebbe seguito. Dunque le analogie con il periodo che stiamo vivendo, e a cui fai riferimento nell’ultima parte della mail, mi sembrano molteplici. Piace anche a me pensare che il passaggio di questo strano tempo assomigli a quello di un ascoltatore che fruisce un preludio, come in attesa di un suono ancora tutto da scoprire. Ma dopo cosa ci attende? Quale sarà il “postludio”? Sicuramente avremo più che mai bisogno di chi, come te, saprà leggere tutti quei nuovi simboli sonori che le prossime maree ci porteranno.

 

AdG: Caro Francesco, 

 

Acusmatica

 

come sempre lo scambio con te si rivela molto utile, e chiarificatore per me sul destino che avrà l’opera Atlantis.. Non è un divagare questo nostro insistere sul punto e contrappunto, ed è assolutamente necessario il tuo  pensiero  su Monteverdi e sul Vespro della Beata Vergine di cui amo molto il mottetto VII Duo Seraphim.  In esso credo, infatti,  che sia oltremodo tangibile il bisogno dell’autore di dialogare con la sacralità dell’architettura, e la sua volontà di sentirsi immerso e immergere il pubblico dentro un vortice di frequenze. 

 

Nella presentazione del progetto dedicato a Manifattura Tabacchi avevo diviso, come richiesto, la descrizione della fruizione del lavoro in due destini. Il primo per l’ascolto in rete, raccomandando un buon paio di cuffie, o un buon paio di monitor per non perdere alcune densità già alleggerite dal formato mp3. Il secondo, invece, per un’installazione acusmatica dell’opera nello spazio, ossia un’interpretazione dei campionamenti pre registrati, attraverso un’orchestra di altoparlanti installati nel luogo architettonico. Il carattere intimo dell’acusmatica, che rende l’esperienza sonora in qualche modo indipendente dal visivo, la riallaccia comunque a una manifestazione tangibile come l’architettura e la materia in termini di massa e volumi. Inoltre ci riporta alle riflessioni precedentemente fatte sulle paracusie, le quali esprimendo un vissuto privato allucinatorio, non per questo ci isolano dal paesaggio, il quale, introiettato per mezzo di un processo psicomagico, è capace di trasformare la percezione in una propriocezione dell’ambiente.

 

Con questo voglio dire che quella città annunciata da occulti messaggeri (i suoni di Atlantis), e che vive sotto le immediate spoglie della fenomenologia presente, trasforma la linearità del tempo in una ciclicità in grado di restituire uno spazio svelato. 

 

In merito invece all’ultima parte della tua mail, caro Francesco, ossia sul “ciò che ci aspetterà”, o sul postludio, e restando sempre su un piano umano e personale, credo che il tempo che verrà, come la storia in generale, si scriva solo col dovuto distacco, e che tutti i tempi risiedono nel presente. In questo senso il mio augurio è di goderci questo preludio o di odiarlo, ma se possibile sentirsi privilegiati nel poterlo vivere anche con grandi pressioni, poiché il suo portato spirituale arriva da molto lontano.

 

FO: Caro Alessio,  come promesso ti riporto qui di seguito alcune considerazioni di natura più “tecnica” circa la tua opera. Poiché, in fin dei conti, la musica è fatta di e con i suoni, è bene entrare in medias res.

 

De natura sonoris – Una sorta di analisi

 

Ho pensato di dare questo titolo al presente intervento non solo in memoria del celebre Krzysztof Penderecki, scomparso neanche un mese fa, ma soprattutto perché Atlantis, tra le molte cose, è anche un’indagine sulla natura del suono. Durante la percezione della tua opera, caro Alessio, non posso fare a meno di ricorrere alla ficcante similitudine che usava Gyorgy Ligeti quando paragonava l’ascolto di alcune musiche alla chioma di un albero mosso dal vento. Da una distanza considerevole possiamo scorgere solo un profilo con al centro una grande macchia verde. Avvicinandoci, però, tutti i micromovimenti del fogliame iniziano ad essere sempre più intellegibili. Atlantis, forse di più rispetto a un comune ascolto, pretende concentrazione. Trovo quindi giusta la tua richiesta di dotarsi di un buon paio di cuffie o monitor con qualità da studio e, mi permetto di suggerire, anche una notevole quantità di volume così da non perdersi nulla di ciò che accade anche “dietro le quinte”. Dentro la tua opera sento accadere molte cose che tenterò di tradurre con gli strumenti dell’analisi musicale e nei limiti dello spazio di una mail. In fin dei conti il ruolo che qui sono chiamato a ricoprire è anche questo. 

 

Hscape inizia con un accordo di Do maggiore affidato a un pianoforte sintetizzato. Questa è la prima cellula generativa da cui tutto sembra poi derivare, la cosiddetta prima res audita ab nihilo, come scrivevano i maestri medievali dell’Ecole de Notre Dame. Ciò che segue, sotto il profilo armonico, è una successione di accordi che, a velocità variabile, emergono dal luogo in cui sono stati generati per poi farvi ritorno. Questi grumi accordali si presentano nelle varie configurazioni previste dall armonia tonale: accordi perfetti maggiori, minori, diminuiti, con settime maggiori, settime minori ecc. Tali accordi sono però defunzionalizzati, ovvero non strutturati secondo la logica gerarchica propria del linguaggio tonale (tonica, sottodominante, dominante ecc.). Hscape ricorda un corale luterano di epoca barocca ma con sonorità digitali, la sua struttura formale è timbricamente autogenerativa: sono cioè i suoni stessi che regolano la loro disposizione nel continuum temporale. 

 

F3C-CH2-F è costruito intorno all’intervallo di quinta giusta Fa – Do e al suo corrispettivo di quarta giusta Do – Fa. Da subito questo intervallo (che nel complesso riempie l’ottava Fa – Fa) sembra dar luogo a uno “spazio delle possibilità”. Nel celebre II movimento della Nona Sinfonia di Beethoven accade una cosa analoga: gli intervalli melodici discendenti Re – La – Re delimitano fin da subito lo spazio in cui si articolerà tutto il movimento. All’interno di questa regione sonora, perfettamente coerente con tutta la poetica del progetto Atlantis, emergono timbri cangianti che a volte tendono ad incrementare il loro gradiente armonico e altre, invece, ad assorbirlo. Anche in questo caso il parametro armonico non è confinabile all’interno di una logica tonale, è comunque vero che il lungo accordo, che lentamente si compone e decompone, presenta tutti gli armonici della nota Fa del sistema equabile. Durante l’ascolto non posso non pensare al celebre Organ2/ASLSP di John Cage. Il brano, eseguito da un organo automatico appositamente costruito e posto nella chiesetta tedesca di Halberstadt, è pensato per essere eseguito in 639 anni e di fatto è la performance musicale più lunga di sempre. 

 

Nelle tue opere, caro Alessio, vi è però un parametro determinante che spesso nelle analisi accademiche è poco considerato e in questo caso non possiamo permetterci di tralasciarlo: il vettore spazio. I tuoi suoni possiedono infatti una forza cinetica che li fa muovere non solo sul “fronte stereo” (mi riferisco agli effetti di panning che tu usi), ma anche, e soprattutto, in direzione frontale. Questo moto ondoso in “3D”, se mi passi la semplificazione, sarà ulteriormente amplificato da una corretta collocazione degli altoparlanti nell’ambiente che ospiterà l’installazione acusmatica. Mi permetto quindi di suggerire una ben ponderata logistica, perché in questi casi diventa determinante per fruire l’opera sonora nella sua interezza acustica e formale.

 

AdG: Ti ringrazio molto Francesco per esserti spinto in una analisi così precisa e attenta, e resto lusingato dai riferimenti che ti hanno evocato queste mie due composizioni. 

 

I due autori che tu citi, Ligeti e Cage, sono, sul piano emozionale, tra i miei più sentiti paradigmi. Ricordo di Gyorgy Ligeti il Requiem che, grazie a Kubrick, all’età di 6 anni mi affascinava e inquietava restandomi indelebilmente dentro.  In merito a John Cage ricordo invece come Claudio Lugo, musicista e mio docente universitario,  mi introdusse alla sua figura facendomela amare così tanto che, al secondo anno, decisi di affrontare l’esame di teoria e tecnica dell’improvvisazione musicale basandomi interamente sul suo lavoro.

 

Infine ti ringrazio per i consigli di installazione acusmatica, che sicuramente cercherò di ponderare al meglio studiando la risposta acustica dello spazio che accoglierà il lavoro. 

 

Music Sheets, BUGS

 

Devo dire che ho pensato molto a come tradurre visivamente Atlantis. Nel riflettere sull’architettura, sul suo sapore di momentanea antichità, e sul suo vivere un preludio di futuro imponderabile, cose di cui abbiamo abbondantemente parlato,  ho anche avvertito che voler imporre il senso passato su quello presente, caro Francesco, equivale a rilanciare regole che non valgono più, che sono in qualche modo scadute. Forse è per questo che mi è venuto in mente di improvviso il bug (errore informatico) che un programma di design 3D pratica nel tentativo di ricostruire un substrato di texture precedente. Mi spiego meglio: tempo fa, dopo aver messo a registro un lettering  da me concepito su spartito musicale (*teoria Nn), provai a rendere tridimensionali le lettere con un software per il disegno 3D, rendendomi conto che quando tentavo di “staccarle”  dallo spartito per estruderle, il programma ricostruiva i righi del pentagramma senza riuscire davvero a riallinearsi sulla struttura originale. Ecco allora che, in questo lavoro visivo di Atlantis, la discrepanza, il leggero spostamento, crea una frattura, un movimento che definisce i confini formali di qualcosa che conosciamo, ma le cui regole non sembrano più coincidere con quelle passate. Per Manifattura Tabacchi ho selezionato alcuni tra i simboli, le architetture, e le situazioni che si staccano dal tessuto sentimentale conosciuto, per farci confrontare con un repentino ribaltamento del mondo in cui siamo nati e cresciuti. E ho immagino di inserirli su questo fondo di righi musicali distaccandoli, al fine di evidenziarne una loro “incollocabilità” e anche un loro stare sospesi in un tempo che non è più lineare, ma che si defila mutando in una percezione adimensionale. 

 

* La teoria Nn è una teoria che misi a punto nel 2015, insieme all’aiuto dello scienziato Vincenzo Schettino e del maestro Francesco Oliveto, in cui evidenziavo la curiosa identità strutturale nonché la straniante coetaneità del modello atomico di Bohr (che tuttora interpreta la tavola periodica degli elementi), con il pianoforte a 97 tasti Bosendorfer Imperial 290, costruito per volontà del compositore Ferruccio Busoni. 

 

Ciò che emerse dallo studio fu che i due sistemi erano così identici da essere sovrapponibili; tanto da poter idealmente attribuire a ogni elemento chimico una nota del suddetto pianoforte. Per una traduzione visiva pensai invece di usare le frequenze limite gestite dall’estensione dello strumento, al fine di individuare graficamente su spartito musicale un registro formale in cui figurare simboli e immagini.

 

FO: Caro Alessio, grazie per i tuoi Bugs.

 

La traduzione visiva di un suono, o di un insieme di essi, getta lo sguardo dentro un abisso. Il legame tra scrittura, intesa in senso ampio, e “fatto sonoro” è tutt’oggi argomento di accese discussioni tra compositori, musicologi, filosofi della musica e vari addetti ai lavori. Ancora nessuno ne è venuto a capo, se mai ce ne fosse bisogno, ma penso che valga la pena accennare, seppur brevemente, alla questione

 

Sul simbolo musicale  

 

Si è soliti affermare che la notazione musicale nasca dall’esigenza di preservare e salvaguardare le idee. La partitura, di conseguenza, diventa quel luogo di “conservazione delle aspirazioni” del compositore, le note scritte (come ogni altro segno grafico posto su di una partitura) hanno quindi lo scopo di fissare un’intuizione sonora affinché questa possa essere successivamente replicata, nel modo più fedele possibile, dall’interprete. La notazione, nel suo lungo viaggio nella storia (dalla comparsa dei neumi alle dettagliatissime partiture di Brian Ferneyhough, passando dalle provocazioni grafiche di John Cage, Iannis Xenakis ed altri), tenta di chiudere all’interno di un sistema simbolico, quindi astratto, la parte più concreta della musica: il suono. Alla luce di ciò la partitura risulta come una sorta di “carta del cielo”, un mappa che l’esecutore deve cifrare per orientarsi e far orientare l’ascoltatore all’interno di molteplici costellazioni sonore. La notazione, come ogni altra forma simbolica mi verrebbe da dire, presenta però (e per fortuna) un bug: lascia uno spazio libero all’interpretazione e quindi alla fantasia. Proprio in quello spazio che intercorre tra il segno e il suono ci siamo noi ascoltatori insieme all’interprete, anche nel caso della musica riprodotta, perché è il pubblico stesso a diventare interprete. I segni musicali “rinviano” ad un suono ma “non sono” la materia sonora stessa. La partitura, in qualunque veste essa si presenti, è perciò una “forma intenzionale” che rimanda a qualcos’altro. Nessuna scrittura musicale dunque può essere esatta, perché necessita di una decodificazione individuale che genera a sua volta un personale codice emotivo. L’intuizione sonora (quella che alcuni vecchi manuali amano definire “ispirazione musicale”) assume perciò una forma grafica che, nella sua notazione, porta con sé un notevole grado di relatività. Per tutte queste ragioni ogni partitura può essere definita come un “campo di stimoli”, un insieme di punti che l’esperienza individuale percettiva (la storia personale degli ascolti) e la nostra immaginazione dovranno unire per dare vita a nuove figure sonore.

 

Anche sotto questo profilo, caro Alessio, trovo che i tuoi Bugs si inseriscano perfettamente dentro il dibattito segno/suono che appartiene a una lunga tradizione e che, soprattutto per la maggior parte dei compositori contemporanei, rappresenta IL problema, poiché, di fatto, la musica non può essere rappresentata graficamente in ogni suo parametro. Se è pur vero che la notazione (più o meno convenzionale) abbia raggiunto un buon compromesso per ciò che concerne le altezze e le durate, resta ancora un vuoto incolmabile per l’altro parametro fondante del suono: il timbro. Le “fratture” e le “discrepanze” che risultano dalle tue partiture (rigorosamente poste su fogli orchestrali, bravo Alessio!) ci ricordano che il suono, in tutte le sue componenti, non può che ribellarsi ai vincoli dei righi musicali perché lì non c’è e, forse, non c’è mai stato.

 

Un abbraccio forte.

 

Francesco

Alessio de Girolamo

(Sanremo, Italia 1980)

If I woke up one day / Alessio de Girolamo

Alessio de Girolamo è un pittore e sound artista. Trae ispirazione dall’epistemologia e dai suoi limiti gnoseologici mettendo in risalto aspetti illusori con linguaggi multidisciplinari e mix installativi, realizzando esperienze immersive e performances. Ha fondato a Milano “DAVW” nel 2016, un progetto dedicato al suono e in stretto dialogo con l’elemento architettonico della finestra, realizzando diverse collaborazioni con artisti contemporanei.
Negli ultimi due anni ha progettato installazioni acusmatiche e visive tra le quali ricordiamo la trilogia “L-System”, presentata presso Galleria Continua nel 2018; presso il TAI di Prato nel medesimo anno; presso la Biennale di Shenzhen, Cina, nel 2019.

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Francesco Oliveto

If I woke up one day / Alessio de Girolamo

Francesco Oliveto si è diplomato in composizione con il massimo dei voti e lode al Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze con il Maestro Paolo Furlani. Ha partecipato a numerose masterclass con compositori di fama internazionale quali: Stefano Gervasoni (docente di composizione presso il Conservatorio di Parigi), Behzad Ranjibaran (docente di composizione presso la Juilliard School of Music di New York), Luis de Pablo (docente di composizione presso il Conservatorio di Madrid) e i premi oscar Ennio Morricone e Dario Marianelli.
Le sue composizioni sono eseguite all’interno di prestigiose rassegne di musica contemporanea e festival, sia in Italia che all’estero. Ha composto inoltre numerose musiche per film, documentari e spettacoli teatrali. Da circa venti anni insegna Informatica applicata alla Musica, Storia della Musica, Armonia e Composizione per Immagini presso scuole di musica, licei musicali e università.